Gianluca Basile: «Seguite il sogno e lavorateci con convinzione» /INTERVISTA

Una lunga chiacchierata con il cestista ruvese.

sabato 25 febbraio 2017 10.13
A cura di Grazia Ippedico
Gianluca Basile è una persona umile e consapevole. Questo viene fuori, dall'intervista che ha concesso a Ruvoviva.it, mentre era fugacemente di passaggio per Ruvo. Da Capo Orlando a Rimini si è fermato qui in città per salutare i suoi parenti più stretti e siamo riusciti a chiacchierare brevemente con lui.
Eroe della pallacanestro nazionale e internazionale, Basile ha fatto parlare nuovamente di sé per il suo definitivo ritiro dalla scena. Abbandona senza alcun rimpianto la pallacanestro, e ci spiega i motivi.

Asso nella manica delle partite locali, Gianluca diciasettenne è stato spinto ad andare a Reggio Emilia a fare un provino. Si propone, con tutti i rischi del caso. E conquista gli allenatori della Pallacanestro Reggiana. Alto un metro e novantadue entra come guardia, ed entra nella squadra emiliana nonostante sia già troppo grande.
«Avevo solo due anni di esperienza nelle giovanili. Spesso i ragazzi vengono ingaggiati molto tempo prima, anche ai tredici, quattordici anni. Ma c'è chi ha creduto in me e mi ha spinto in questa direzione. All'inizio è stata dura ma non mi sono arreso. Venivo dalla campagna. Dopo la scuola media avevo detto ai miei genitori che non avrei continuato la scuola ed ero deciso della mia scelta. Mio padre insegnava francese alle scuole serali; la mattina mi portava con lui in campagna. Per tre anni mi sono alzato alle cinque con lui, e ho lavorato duramente nei campi. Non c'erano sconti per me. Mio padre sperava che mollassi la campagna e tornassi a scuola. Ma io avevo fatto la mia scelta.
Quando è arrivato la Reggiana mi sono impegnato duramente per non tornare alla mia vita precendente, per non tornare a Ruvo, a lavorare la terra. Ho colto l'occasione e sapevo che non potevo lasciarmi sfuggire questa opportunità. Io ce l'ho messa tutta. E i miei genitori mi hanno sempre spinto a resistere, ad allenarmi, anche quando le cose non andavano tanto bene.»

Passa da Reggio Emilia alla Fortitudo Bologna, dopo di che gioca per sei anni al Barcellona, passando poi alla Pallacanestro Cantù, e all'Olimpia Milano ed infine all'Orlandina Basket. Qual è l'esperienza che ti ha segnato di più?
«Sicuramente il Barcelona. Si giocava ad altissimi livelli. Giocavamo per vincere. In squadra avevamo tutte eccellenze. Perdere non era ammissibile. Inoltre sono stati sei anni stimolanti: una lingua nuova, nuove culture, nuove abitudini, una nuova vita.» La famiglia lo segue sempre. Alessia la prima, quasi diciottenne nasce a Ruvo, la seconda Manuela nasce a Bologna e la terza, Federica è nata undici anni fa in Spagna.

Sempre in giro per l'Europa e intanto le bambine crescono e creano legami e gli spostamenti diventano più difficili. Ma la famiglia è la famiglia. Nunzia, la moglie, e le bambine affrontano con Gianluca ogni spostamento fino all'ultimo trasloco, al Sud, in un ennesimo posto sconosciuto. Ma Il calore della Sicilia non lascia indifferenti e conquista la famiglia Basile. Ora che Basile, quarantadue anni, con trentacinque anni di pallacanestro alle spalle, di cui ventuno da professionista, ha deciso di abbandonare la palla, è convinto di restare a Capo D'Orlando. E di mettere radici lì.
«A parte Ruvo nessun posto è mai stata la nostra casa. Ma in Sicilia si vive bene, stiamo bene. Abbiamo deciso di rimanere lì»

Quali sono i progetti per il futuro?
«Di riposarmi» risponde di cuore. Sorride. Continua «Ho avuto varie proposte: procuratore, viceallenatore ecc. Ma in questo momento voglio fare altro. Per fortuna non ho l'ossessione di trovare lavoro. Non ho la necessità di mantenere la famiglia. Penso di aver dato il massimo nel basket. Il pericolo è di buttarmi in una cosa che non è quella che so fare. Non avrei la palla in mano. A bordo campo non controlli tu, non decidi tu. Fare una squadra non è facile. Ora non me la sento, poi chissà.»

Si sente il peso portato negli anni. Mentre parla delle bambine che giocano a pallavolo, o dei suoi fratelli che hanno giocato a basket anche in maniera seria, Gianluca utilizza la parola "giochicchiano". Due allenamenti alla settimana non sono sufficienti, dice, lo sport è un'altra cosa. Lo sport da lui inteso è fatica e lavoro. Ogni giorno ci si allena, duramente, per ore e ore. Lo sport fatto dalle figlie è un hobby. «Se fossi io l'allenatore pretenderei l'impegno massimo, al cento per cento. Sarei così esigente da essere patetico. Bisogna individuare il proprio sogno e farlo diventare un obiettivo. E sono sicuro che se persegui quell'obiettivo, quel sogno, alla fine ce la fai. Io sono stato fortunato. E' passato un treno e ci sono salito di corsa, ma le occasioni capitano. Bisogna saperle cogliere e farsi trovare pronti. Dove aver fatto la scelta di giocare ho lavorato davvero davvero tanto. Il che significa stringere i denti e fare sacrifici. Ma io sono convinto che se uno vuole alla fine ce la fa.»

Che fa adesso Gianluca Basile?
« Mi piace pescare e adesso ho iniziato ad andare a funghi. Mi piace avere questo contatto con la natura. Ricordo quand'ero piccolo, andavo a funghi con mio padre e mio zio Giacomo (Moramarco) che mi ha insegnato a cercare i funghi. E' una bella attività. Mi fa stare bene. E' un po' come tornare alle origini»

E niente più sport?
« No. Non c'è un altro sport che mi piace. Chi corre, chi va in palestra deve avere una grande forza di volontà. Sta da solo, non fa gioco di squadra. Ci sei tu e solo tu. Nel gioco di squadra hai un senso. Ma adesso sono andato oltre rispetto a quello che ero capace di dare. Faccio altre cose e sono felice così.»

Qual è stata la tua migliore esperienza sportiva?
« Senza ombra di dubbio le Olimpiadi di Atene nel 2004. Cantare l'inno nazionale, rapprensentare la nazione, indossare la maglia azzurra, vincere la medaglia d'argento è stata l'esperienza emotivamente più forte della mia vita. L'ho vinto da protagonista, ero uno dei leader di quella squadra, giocavo tanto e bene. Era un bel gruppo, c'era uno spirito di squadra perfetto. Così la senti proprio tua, quella medaglia.»