Le luci dell’anima. Ricordi dell'Ottavario a Ruvo di Puglia
Tradizioni, colori e sapori tra devozione e festa nella memoria dei più anziani
giovedì 26 giugno 2025
Pe tutte u anne / le fìiure de la Murge / girene la cope / pe scèie rète a u saule. / Attirene u calore / e 'nzemuièscene ènèrgèie. / A sciugne / cu chèra liusce / de tanda cheliure / appiccene re lambitte / de l-arcatone de l-ottove.
Per tutto l'anno / i fiori della Murgia / girano la corolla / per seguire il sole. / Assorbono il calore / e immagazzinano energia. / A giugno / con quella luce / di tanti colori / accendono le lampadine / delle luminarie dell'Ottavario.
Così canta la voce della memoria del compianto poeta Pietro Stragapede che ci ha regalato, nella sua raccolta "La collane de fofe de cuzzue", un'immagine poetica perfetta per descrivere l'essenza dell'Ottavario del Corpus Domini a Ruvo di Puglia. Una festa che per generazioni ha rappresentato il momento più intenso dell'anno liturgico e al tempo stesso un rito profano collettivo all'insegna della rinascita e dello splendore.
Negli occhi dei più anziani riaffiorano le immagini di una città addobbata a festa: luminarie che disegnavano arabeschi luminosi lungo i corsi principali, archi che incorniciavano la strada da Piazza Bovio fino a Piazza Castello, e una grande cassarmonica – trono di luce e suono – al centro della piazza, da cui le bande musicali accompagnavano le serate fino a tarda notte. I quattro "piccoli altari" disposti lungo le vie, con spalliere e paramenti di festa, facevano da stazioni silenziose alla processione e al passeggio.
Non c'era ruvese che nei giorni dell'Ottavario non uscisse di casa con l'abito migliore. Era il tempo di "farsi vedere", di mostrare l'eleganza, ma anche di ritrovare amici, parenti lontani, innamorati segreti. I corsi diventavano passerelle di luci e di volti, dove si incrociavano sguardi e parole al profumo d'inizio estate.
In Piazza Castello, i bar storici della città allestivano tavolini all'aperto: il Bar Gambrinus, in particolare, era celebre per le sue cassate "leggendarie", dai mille aromi, che si scioglievano in bocca come un rito. Non mancava la cremolata alle mandorle preparata da Petrarota, fresca e corposa, vera regina dei gelati di una volta. Le famiglie vi si sedevano dopo la processione, gustando la dolcezza mentre le note della banda fluttuavano nell'aria come preghiera e festa.
Ma l'apice erano i fuochi pirotecnici, vera attrazione che richiamava a Ruvo gente dai paesi vicini. C'erano quelli "diurni", a sorpresa, che scuotevano l'aria già al mattino, e poi i "serali", imponenti e colorati, che si prolungavano quasi fino all'alba. Memorabili erano le "tre bombe finali" – secche, violente, definitive – che segnavano la fine dello spettacolo e l'inizio della giornata per i contadini: senza tornare a casa, si dirigevano direttamente nei campi, sotto un cielo ancora fumante di polvere da sparo.
L'Ottavario, in fondo, era questo: una festa dell'anima, che univa cielo e terra, sacro e profano, luce divina e lampadine colorate. Una tradizione che oggi sopravvive nella memoria e nei racconti, nei versi dialettali e nelle vecchie fotografie, come un fiore murgiano che ancora si gira al sole, in attesa di ridonare la sua luce alla città.
Per tutto l'anno / i fiori della Murgia / girano la corolla / per seguire il sole. / Assorbono il calore / e immagazzinano energia. / A giugno / con quella luce / di tanti colori / accendono le lampadine / delle luminarie dell'Ottavario.
Così canta la voce della memoria del compianto poeta Pietro Stragapede che ci ha regalato, nella sua raccolta "La collane de fofe de cuzzue", un'immagine poetica perfetta per descrivere l'essenza dell'Ottavario del Corpus Domini a Ruvo di Puglia. Una festa che per generazioni ha rappresentato il momento più intenso dell'anno liturgico e al tempo stesso un rito profano collettivo all'insegna della rinascita e dello splendore.
Negli occhi dei più anziani riaffiorano le immagini di una città addobbata a festa: luminarie che disegnavano arabeschi luminosi lungo i corsi principali, archi che incorniciavano la strada da Piazza Bovio fino a Piazza Castello, e una grande cassarmonica – trono di luce e suono – al centro della piazza, da cui le bande musicali accompagnavano le serate fino a tarda notte. I quattro "piccoli altari" disposti lungo le vie, con spalliere e paramenti di festa, facevano da stazioni silenziose alla processione e al passeggio.
Non c'era ruvese che nei giorni dell'Ottavario non uscisse di casa con l'abito migliore. Era il tempo di "farsi vedere", di mostrare l'eleganza, ma anche di ritrovare amici, parenti lontani, innamorati segreti. I corsi diventavano passerelle di luci e di volti, dove si incrociavano sguardi e parole al profumo d'inizio estate.
In Piazza Castello, i bar storici della città allestivano tavolini all'aperto: il Bar Gambrinus, in particolare, era celebre per le sue cassate "leggendarie", dai mille aromi, che si scioglievano in bocca come un rito. Non mancava la cremolata alle mandorle preparata da Petrarota, fresca e corposa, vera regina dei gelati di una volta. Le famiglie vi si sedevano dopo la processione, gustando la dolcezza mentre le note della banda fluttuavano nell'aria come preghiera e festa.
Ma l'apice erano i fuochi pirotecnici, vera attrazione che richiamava a Ruvo gente dai paesi vicini. C'erano quelli "diurni", a sorpresa, che scuotevano l'aria già al mattino, e poi i "serali", imponenti e colorati, che si prolungavano quasi fino all'alba. Memorabili erano le "tre bombe finali" – secche, violente, definitive – che segnavano la fine dello spettacolo e l'inizio della giornata per i contadini: senza tornare a casa, si dirigevano direttamente nei campi, sotto un cielo ancora fumante di polvere da sparo.
L'Ottavario, in fondo, era questo: una festa dell'anima, che univa cielo e terra, sacro e profano, luce divina e lampadine colorate. Una tradizione che oggi sopravvive nella memoria e nei racconti, nei versi dialettali e nelle vecchie fotografie, come un fiore murgiano che ancora si gira al sole, in attesa di ridonare la sua luce alla città.