Pietro Pasculli
Pietro Pasculli
Cronaca

Intervista a Pietro Pasculli. Ecco i miei dieci giorni d'inferno

Paura e frustrazione per chi non è libero di esprimere la propria opinione

Ventisettenne, studente di storia presso l'università degli studi di Bari, Pietro Pasculli torna in Italia provato ma contento. Magro come sempre, occhi vividi e energia da vendere, Pietro sta bene. Il suo lungo racconto però sottolinea storie di ingiustizia, disagio, violenza, intolleranza. Parla di Guerra.

Perché sei partito? Cosa ti spinge per l'ennesima volta, ad affrontare un viaggio che ti porta a rischiare la vita? (Pasculli è stato anche in Palestina, diverso tempo fa, con l'associazione ISM:International Solidarity Mouvement)
«Sento su di me la responsabilità dell'ingiustizia e della repressione che vengono fatte sugli altri popoli. Nessuno ne parla e se si parla del Kurdistan se ne parla male. A differenza della Palestina in Turchia non ci sono organizzazioni. Ma io avevo questo desiderio e l'avevo espresso a Claudio Tamaglini, conosciuto in un altro viaggio. Siamo partiti insieme il 22 Luglio e i nostri progetti prevedevano un ritorno alla fine di Agosto.»

Perché partire per la Turchia?
«Volevo fare attività di report. Mi ero messo già in contatto con alcune testate: il Manifesto, Liberazione, l'Internazionale. Siamo partiti per Istambul e di là diamo giunti a Diyarbakir. I primo quattro giorni siamo stati in alcuni villaggi con un'associazione ecologista del posto.

La situazione è devastante: tutti i villaggi sono stati pian piano distrutti. Spesso con la scusa di dover fare azioni militari, interi villaggi sono svuotati e bombardati. Ma la gente che tornava a casa poco dopo non ritrovava più nulla: i campi coltivati, gli allevamenti di bestiame. Tutto era stato spazzato via. Ogni forma di sostentamento non era più fruibile.
La situazione è spaventosa, l'aria tesa. Vedi continuamente aerei militari ed elicotteri volarti sulla testa. Riesci a vedere i lampi dei bombardamenti nei villaggi vicini al tuo. Vogliono abbattere la resistenza Kurda ma in realtà chi muore sono i civili. Vogliono debellare il PKK (partito della resistenza) ma i guerriglieri che riescono a stanare sono proprio pochi. Siamo stati quattro giorni nel villaggio. Poi siamo andati via. Con me e Claudio c'era una ragazza tedesca che parlava benissimo il turco.
Tornati in autobus a Diyarbakir siamo stati controllati: controlli sono certosini e accurati. Dopo il primo controllo, ne arriva un altro a sorpresa dalla polizia.»


La polizia, che gira in borghese, è fedelissima a Erdogan e gira su mezzi corazzati senza targhe, ferma Pietro, Claudio e la ragazza Tedesca (di cui non ci può svelare l'identità). La polizia controlla i telefoni, il diario di viaggio, gli appunti. Nonostante la dichiarazione dei tre d'essere lì in veste di turisti nessuno gli crede: vengono invitati ad andare in questura. Scoprono le foto di Lice, un paesino bombardato nel 1994 e l'interrogatorio inizia a diventare politico. Conosci Abdullha Ocalan (leader del PKK)? Conosci Erdogan? Che pensi di lui? Fethullah Gulen? Pietro è sincero. Risponde sinceramente. Sa chi sono i personaggi nominati e dichiara di non apprezzare l'opera di Erdogan. La tessera a rifondazione comunista non lo aiuta. Lo scontro verbale diventa acceso. Arriva la proposta: vogliono sapere i villaggi visitati e le persone conosciute. In cambio sarebbero stati rilasciati. Ma Pietro e i suoi compagni non fanno le spie. Tacciono. E questo, in breve tempo li rende soggetti pericolosi. Dall'interrogatorio all'arresto manca poco. La fortuna di Pietro è stata una sola: aveva un secondo cellulare dal quale è riuscito a mandare un messaggio a casa e un altro al suo amico Vincenzo Colaprice. Ci hanno arrestati.

Dal messaggio lanciato all'amico si iniziano a mobilitare una serie di persone: chiama Paolo Ferrero segretario di rifondazione comunista, contatta l'europarlamentare Eleonora Forenza e di qui si iniziano e mobilitare una serie di persone.
La notizia rimane segreta affinchè non si aggravasse la situazione e i tre non diventassero una pedina di scambio.
La polizia invita i tre a dormire in questura per quella notte. Il giorno dopo li avrebbero liberati. Ma Claudio, Pietro e la ragazza tedesca sono stati portati nelle segrete della questura. Ognuno in una cella.
«Avevano sequestrato i lacci delle scarpe, e una notte si è trasformata in quattro giorni ininterrotti. Non c'era nessuno con cui parlare. Non c'è giorno né notte. Una cella tre metri per cinque. un faro puntato sulla tua persona h24 e nient'altro. Non avevo cellulare, una penna, un foglio, un libro. Niente. Il giorno dopo l'arresto ci hanno comunicato che ci accusavano di terrorismo e spionaggio internazionale. I pensieri si affollavano irrimediabilmente. Passavano le ore e i giorni e nessuno ci diceva che cosa stesse accadendo. Le cose che ti vengono in mente sono solo brutte. Non sai cosa ti accadrà. Non sai se qualcuno sa niente di te. Non sai se l'italia sa. Inizi ad avere davvero paura. Inizi a pensare a tutti coloro che hanno subito le stesse angherie prima di te, e ne rimani sconvolto.»

Intanto Pietro che aveva scritto il suo Kurdistan Diary viene interrogato ancora. Sospettano di rapporti con il PKK e sia il cellulare che il diario vengono spediti ad Ankara, per essere tradotti. il procuratore non li condanna, il giudice nemmeno. Li liberano: le implicazioni politiche sono altissime. Lasciano perdere.

«Al quarto giorno ci portano in tribunale, dove conosciamo il nostro avvocato curdo. Ci fanno un processo farlocco, tutto in turco. Avevamo un interprete che conosceva solo il tedesco.»
Ormai liberi Claudio, Pietro e la ragazza tedesca decidono di tornare a casa. Prenotano un volo per atene, più economico, e decidono di tornare a casa. Ma subiscono un'altra irruzione: in regime di leggi speciali il potere della polizia è più grande della giurisprudenza. Si deicide per la deportazione. Ai tre sta bene. Si mettono in viaggio scortati dai poliziotti. Nel pieno nulla le auto si fermano. I ragazzi vengono nuovamente spogliati dei loro effetti personali. E ripiombano nell'incubo.

«Quello che può succedere di davvero orribile è scomparire. La Turchia fa affari con l'isis: la nostra paura era quella di essere venduti all'isis che avrebbe chiesto un riscatto di milioni di euro all'talia.
Eravamo ad Adana, e veniamo rinchiusi in un CIE. Non eravamo soli: c'era gente che era lì da tre, quattro mesi in attesa dell'espulsione. Persone che sono lì perché non c'è diritto di espressione, non c'è diritto di parola. Non si può scrivere o dire parola contro il governo.»


Passano nuovamente altri 4 giorni nel centro di espulsione. Il consolato fa tutto il giro dei centri per trovarli. E l'accordo è semplice: per tornare a casa a spese della Turchia sarebbero dovute passare delle tre alle 4 settimane. L'alternativa è pagare il proprio viaggio e quello d'andata e ritorno alle scorte turche. Le famiglie accettano e pagano. L'avventura dei tre termina il 4 Agosto.

Lo rifaresti?
«L'esperienza del carcere no. Ma quello che ho fatto si. La solidarietà al popolo curdo resta. Quando parti metti in conto i rischi. Io sento il peso delle decisioni della nostra nazione che vengono subite da altre popolazioni.
Non sono mai così contento d'essere a Ruvo ma senti la responsabilità perché la Palestina come il Kurdistan sono vittime delle politiche del'Italia e del mondo occidentale. Se non c'è qualcuno che riporta quello che succede lì, nessuno può pensare di fare niente per aiutare il popolo kurdo. L'informazione è il primo passo per cambiare il mondo. la turchia va isolata, va boicottata economicamente.»


Quali sono i tuoi progetti futuri?
«A febbraio mi laureo. Poi si vedrà!»

Di seguito Nasaybin nelle foto offerte da Pietro Pasculli
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