Festa dell'Uva
Festa dell'Uva
Vita di città

Storia Viva - La Sagra dell’Uva a Ruvo di Puglia: festa e propaganda

Negli anni Trenta la Sagra fu modello di mobilitazione giovanile per il Fascismo

Alla fine degli anni Trenta, Ruvo di Puglia – cuore agricolo e viticolo del nord barese – celebrò con grande e partecipazione popolare la sua Sagra dell'Uva. Questa manifestazione rappresenta un perfetto specchio della vita italiana durante il fascismo, un periodo in cui ogni manifestazione popolare doveva necessariamente incarnare i valori e l'ideologia del regime.

La "Festa dell'Uva" (spesso detta anche "Giornata dell'Uva") venne istituita dal governo fascista il 28 settembre 1930 su iniziativa del sottosegretario all'Agricoltura Arturo Marescalchi e con l'approvazione di Benito Mussolini.
L'obiettivo ufficiale era duplice: fronteggiare la sovrapproduzione di uva e vino — che danneggiava i produttori — promuovendo il consumo interno e la diffusione del prodotto; e al tempo stesso valorizzare la tradizione agraria, legare le campagne alla "rivoluzione fascista" e rafforzare il consenso sociale verso il regime.

Analizzando alcuni articoli della Gazzetta del Mezzogiorno, pubblicati nel 1938 e nel 1939, emerge la capillare macchina politica nascosta dietro l'allegria dei cesti e delle danze.

L'organizzazione era infatti saldamente nelle mani delle gerarchie locali: a muovere i fili il Podestà cav. dott. Giovanni Barile, coadiuvato dal Segretario del Fascio dott. Egidio Boccuzzi, con il punto di partenza del corteo fissato simbolicamente nella Casa del fascio. L'evento si trasformava così in una vera e propria liturgia di massa volta a mobilitare e inquadrare la popolazione. Il corteo non si limitava a sfilare, ma era una parata di divise: le autorità cittadine aprivano la strada, seguite dai membri della G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio) – Balilla, Avanguardisti, Giovani Fascisti e Piccole e Giovani Italiane – che marciavano inquadrati, affiancati dalle Massaie Rurali in costume. Al centro, trionfava l'artistico e simbolico carro vendemmiale, un'icona del ruralismo fascista che esaltava la fertilità della terra italiana come base della potenza nazionale.

Persino l'atto della vendita dell'uva assumeva una funzione politica e benefica. Il Sindacato Agricoltori, la Ditta esportatrice Paparella e le Massaie Rurali allestivano chioschi simbolici, e l'uva, venduta dai "piccoli organizzati della G.I.L." in appositi sacchetti di carta, generava un ricavato destinato interamente "a beneficio della GIL". In questo modo, il frutto del lavoro agricolo veniva reindirizzato verso l'assistenza giovanile del Partito, legando in un unico filo economia locale, beneficenza e consolidamento del consenso. Nonostante la rigorosa cornice politica, la festa manteneva un forte carattere popolare, culminando in Piazza Regina Margherita dove le danze caratteristiche eseguite dalle Massaie Rurali creavano un momento di celebrazione autentica, ma pur sempre controllata, che si protraeva sino a tardi.

La natura politica di queste celebrazioni emerge con forza se si stacca lo sguarda dalla cronaca della festa del 1939 e si legge l'articolo che segue: a pochi giorni dalla festa dell'abbondanza, la comunità veniva immediatamente richiamata alla "Giornata del Ferro". Il cambio di registro era netto: dal carro allegorico alla raccolta di metalli. Il regime, in ottemperanza alle "superiori disposizioni", chiedeva al popolo di contribuire allo sforzo bellico, rendendo l'ingresso al film patriottico proiettato al Cinema Vittoria condizionato all'offerta di "kg. 2 di ferro".

La Sagra dell'Uva di Ruvo, dunque, rappresentò un momento di intensa propaganda agricola e politica, un rito collettivo che riuscì a mobilitare il paese attorno al prodotto simbolo della sua terra, preparandolo al contempo – e senza soluzione di continuità – alle logiche e ai sacrifici imposti dalla guerra imminente.
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