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Vita di città

Storia Viva - Ruvo di Puglia, 1830: la corsa all’oro… dei sepolcri

Quando l’archeologia diventò febbre popolare e portò nelle casse della città più di centomila ducati

C'è stato un tempo in cui a Ruvo di Puglia l'archeologia non era una scienza riservata a studiosi e istituzioni, ma una febbre collettiva, un azzardo capace di trasformare per qualche settimana il silenzioso territorio rurale in un brulicante cantiere a cielo aperto.

Un prezioso manoscritto ottocentesco ce ne offre una vivida testimonianza. Si tratta delle Ricerche istoriche sull'antichità ed origine della nostra Città di Ruvo del canonico don Giacomo Ursi, una fonte di straordinario valore per la storia cittadina. Qui si legge che, intorno al 1830, «molti Paesani, per azzardo, cominciarono a scavare in una cocevola poco distante dalla Città denominata la Zeta perché la sua figura a questa lettera molto somiglia».

Quel terreno apparteneva al Monte della Pietà e si estendeva per circa sette vigne. I primi scavatori furono fortunatissimi: rinvennero eccellenti sepolcri, stimolando così anche gli altri cittadini a tentare la sorte nello stesso luogo. In breve, «a folla andavano a scavare nell'indicato territorio».

Il manoscritto racconta con meraviglia lo spettacolo che ne seguì: per settimane intere, moltissimi cittadini, divisi in compagnie, lavorarono incessantemente. «Era bello e piacevole il vedere una gran festa, tanta era la folla della gente addetta a scavare, e che per curiosità si portava in detto luogo per vedere aprire quelli rinomati sepolcri, ed averne qualche contezza de' medesimi».

Non mancò chi intravide nell'improvvisata corsa ai sepolcri un'occasione commerciale: nella zona, infatti, si vendevano pane e companatico per rifocillare scavatori e curiosi. Tutto, insomma, assunse i tratti di un evento comunitario, in bilico tra lavoro, avventura e spettacolo.

E i numeri parlano da soli: «Si calcola, e con fondamento, che dai molti scavi fatti dall'epoca sopraddetta fino al presente, ch'è il 1835, si sono ritratti, e sono entrati nel Paese più di centomila ducati». Un guadagno enorme, segno tangibile di quanto quell'ondata di ricerche improvvisate — oggi le definiremmo "scavi clandestini" — abbia inciso sul tessuto economico cittadino.

E c'è un dettaglio che rende ancora più viva questa memoria: la contrada "la Zeta" porta lo stesso nome ancor oggi. Si tratta dell'area che molti ruvesi conoscono per un altro motivo, assai diverso: quella spesso utilizzata per i fuochi pirotecnici, poco oltre la stazione ferroviaria, in direzione Corato.

Un luogo che custodisce, nel silenzio del suo toponimo, l'eco di una febbre archeologica popolare che, per qualche stagione, seppe trasformare un lembo di campagna nella scenografia di una vera, e forse irripetibile, corsa all'archeologia.

Fonte: Biblioteca Nazionale di Bari, Fondo D'Addosio, G. Ursi, Ricerche istoriche sull'antichità ed origine della nostra Città di Ruvo, ms.
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